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註釋Varcata la soglia dello studio-laboratorio di Enrico Sette, il visitatore si fa complice di una boutique del mistero che avrebbe certo appassionato Dino Buzzati.
Tavole, tronchi e ceppi, recuperati e allineati secondo un ordine selvatico alle pareti, conservano la memoria dei boschi in cui si sono fatti: nell'aria, un profumo di pino, di abete e di castagno si mescola al sentore di colle e diluenti.
Sui due banconi da lavoro che delimitano lo spazio al centro, martello, spatola e tenaglia, punteruolo, livella e pialla sono pronti a seguire il filo della storia ammutolita in ogni pezzo inerte. Ogni nodo fu testimone di un ramo, ogni anello di una stagione. L'artista dà vigore nuovo alla metamorfosi terrestre delle forme, che pareva estinta con la caduta o il taglio. A sbocciare non sono però gemme o ramoscelli, ma occhi, bocche, arti protesi a cogliere i frutti di uno spazio espositivo vuoto e mutevole, creature per metà marine e per metà segnate da una morte ancora umana, polene trafugate a navi fantasma.
Accanto alla materia organica, si dispongono lamiere, sacchi, tele, plastiche e ferri. Pupille fisse e smarginate si sgranano, piegando, al solo peso dello sguardo, superfici grezze o nere.
La ruggine dei laminati, accostati a definire una matrice di pieni e vuoti, o a segnare un limite invalicabile, diventa polvere che registra le tracce o le intenzioni di una fuga.
Un numeroso popolo di omini dissidenti, indistinguibili se non, a volte, per il colore, di forme antropomorfe intrecciate con un filo d'acciaio, si impossessa delle rovine del paesaggio, sovvertendone sarcasticamente le convenzioni. Una figura si dondola ignara sul cappio di un patibolo; una, in posa vitruviana, tenta di ripiegare i quattro lembi dello spazio sul proprio centro; un'altra si sporge e guarda in terra, indifferente alla vertigine metafisica della cuspide metallica di quasi tre metri sulla quale è posata; una coppia sembra impegnata a contraddire il parallelismo di due rette, giocando a un drammatico tiro alla fune definito da un sottile filo rosso.
Nel breviario estetico di Enrico Sette, il disordine della forma scartata, scomposta, smembrata, nella quale la tensione della frattura dal contesto di provenienza è ancora forte,
non viene mai riconvertito in banale orpello, utile al feticismo da riciclo di massa piuttosto in voga in questi anni. Si tratta, viceversa, di raccogliere l'eredità del frammento che ha avuto storia propria, ricalibrandola secondo un altro originale registro metaforico.
Dietro questa pratica non c'è l'intento programmatico di indagare e riformulare i rapporti tra politica e arte, anche se proprio la mancanza di questo presupposto consapevole - credo - rinforzi una presa di posizione ancora più necessaria e radicale di qualsiasi attivismo di maniera.