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L' Orologio Di Celluloide
註釋C'era una volta a Catania, antica città del Mediterraneo, al numero 72 di via Luigi Capuana, non molto distante dal teatro dei pupi di Nino Insanguine, un cinematografo di 132 posti. In realtà, era un dopolavoro frequentato da operai e impiegati delle Ferrovie dello Stato e dell'Azienda municipale trasporti. In questo locale, una sorta di garage stretto e lungo dove il biglietto costava venti lire, m'innamorai perdutamente del cinema americano e delle sue dive. Non avevo nemmeno quattordici anni, l'età dello stupore, l'età che si approssima alla giovinezza, quella condizione "dolorosa, limpida e disinteressata", come la descrive Sándor Márai nelle Confessioni di un borghese, alla quale non si può resistere. Del resto, come poteva un ragazzino resistere al cinema in cui l'apparenza è più seducente della realtà? Basta indossare una parrucca per smettere d'essere calvo o recitare un copione per diventare ciò che non si è: eroe, scienziato, tombeur de femmes, milionario. Quale regno meraviglioso di travestimenti, dunque, per uno che aveva appena sbirciato nella vita e intendeva piegarla, per ciò che poteva, alla sua dimensione fantastica? Correva la metà degli anni Cinquanta a Catania, mia città natale che Brancati negli Anni perduti ribattezzò Natàca come a disegnare un fossato tra realtà e fantasia, quasi a mettersi al riparo dalla reazione degli "inquisiti" o dai processi ingannevoli della memoria; oppure, semplicemente, per confondere le acque. Se non faccio mia l'astuzia è perché non c'è alcun fossato tra ciò che ho visto e ciò che ho immaginato, tra lo schermo del cinema e quello della vita. Diceva Nietzsche: l'uomo, abituato a mentire per sopravvivere alla società, continua a fingere anche se crede di dire la verità. E Laurence Olivier spiegava con la "sincerità" il segreto del suo successo: "Una volta che puoi fingerla puoi ottenere tutto". Ma questo sentimento del mentire, che in verità è del raccontare e ricostruire, assomiglia molto al sogno e ad esso si confonde. Se è ragionevole pensare che nel cinema, così come nella letteratura, la verità è superflua perché ciò che conta è la capacità di rappresentarla, è anche vero che la vita, da noi definita "reale", è nella sostanza frutto d'infinite sedimentazioni psicologiche, punti di vista, interpretazioni contraddittorie, forzature, ambiguità, eccessi retorici, mitomanie, ignoranza, vanità, così da rendere oggettivamente discutibile la realtà stessa. Di recente, l'inglese Antony Beevor, autore di libri storici che hanno venduto nel mondo quattro milioni di copie, ha sostenuto che non si può scrivere di storia attraverso i racconti dei sopravvissuti, nel suo caso dei veterani, perché la memoria inganna, trasforma i fatti e talvolta li confonde con episodi appresi dai libri, dai documentari e dai film di guerra. Insomma, la memoria difficilmente è obiettiva. [...] Piero IsgròLibertà Edizioniwww.libertaedizioni.net