Cosa accade al pensiero e al linguaggio quando vengono sospinti ai limiti di ogni pensabilità e dicibilità? È possibile per il logos, che è al tempo stesso parola e razionalità, dimorare ai e nei limiti del mondo (ai confini dell’Essere), che per definizione è una linea senza estensione, “dove” è perciò impossibile stare e so-stare, cioè avere letterale so-stanza? Sono possibili, insomma, un pensiero-del-limite e/o una parola-del-limite (genitivi equivoci)? E come muta la loro “natura”, quando vengano ad abitare questo paradossale luogo-non luogo che è il limite stesso? È forse la parola a congedare il pensiero, quando quest’ultimo arrivi al limite del dicibile, così da farne un pensiero muto? E come qualificare un simile pensiero liminare, orfano del dire? Non è forse esso l’autentica filosofia, che si connota quindi come una pura attività deittica, silente sentinella del detto? O è piuttosto il pensiero razionale (la logica univoca) a congedare, lì, la parola, inaugurando, così, un dire equivoco e letteralmente ana-logico? E non è, proprio questo dire liminare, il dire originario, etico e/o estetico?
Su tali piste argomentative si muove il presente lavoro, il primo di due volumi dedicati a una ricognizione del pensiero di Wittgenstein (rispettivamente del “primo” e del “secondo” periodo) secondo una chiave ermeneutica innovativa, tesa a rintracciarvi la trasversale tensione verso un pensiero dell’origine (genitivo equivoco).